lunedì 24 aprile 2017

L'influenza del clima e dell'alimentazione nell'evoluzione dell'Homo sapiens

L'albero genealogico dell'uomo (riadattato dallo Smithsonian's National Museum of Natural History - Human family tree). Fonte: Focus.
Il cibo, con i suoi nutrienti, in particolare proteine, omega 3 e colesterolo, ha contribuito alle variazioni del genoma e quindi alla selezione naturale, modificando la struttura corporea degli ominidi, rispetto a Primati, fino alla comparsa dell’Homo sapiens: in particolare hanno contribuito all’andatura verticale (bipedismo) e all’aumento di volume del cervello.
E’ impressionante verificare come le principali tappe della storia dell’uomo siano, in qualche modo, collegate alle condizioni ambientali. L’ultima glaciazione è finita circa 11.700 anni fa e si è instaurato, tra 7500 e 4500 anni fa, il clima attuale, con le familiari quattro stagioni, anche se sono continuate periodiche e contenute oscillazioni termiche. L’uomo ha abbandonato il foraggiamento tradizionale (caccia e raccolta di vegetali spontanei), a causa della rarefazione degli animali da cacciare, ed è passato alla fase agricola (coltivazione dei campi e allevamento degli animali) più conveniente nella resa energetica. Gli uomini consumavano come base nutrizionale i cereali, ma li integravano sempre in modelli alimentari più completi (“pacchetti alimentari” secondo Diamond): in Europa cereali, legumi e bestiame, in America mais, fagioli e cucurbitacee. E’ aumentata la quantità, ma è peggiorata la qualità del cibo e sono comparse nuove malattie da carenza nutrizionale e da infezioni, anche per la convivenza e la promiscuità con altri uomini e animali; la statura si è abbassata. Dall’Ottocento, grazie alla scoperta del vapore, è iniziata l’era industriale, con un forte incremento della disponibilità di cibo per il miglioramento delle tecniche di coltivazione, conservazione e trasporto, superando l’economia su base locale. La moderna agricoltura, figlia delle scoperte scientifiche del Novecento, nasce dall’uso coordinato della chimica, dalla selezione genetica di nuove varietà e dalla meccanizzazione. Tutto questo determina inevitabilmente vantaggi e svantaggi, quali: da un lato aumento straordinario delle rese, diminuzione dei prezzi al consumo dei prodotti agricoli, diminuzione della manodopera nelle campagne, diminuzione della superficie agricola coltivata; dall’altro, conseguenze negative sono: inquinamento dell’aria e dell’acqua (aumento dei nitriti nei vegetali, dei metalli pesanti nell’acqua di irrigazione e nei concimi, l’uso di pesticidi), le interminabili catene alimentari, le lunghe conservazioni, l’abuso di sostanze conservanti e la presenza di contaminanti ed infine la perdita di colture tradizionali, con il fenomeno dell’erosione genetica e riduzione della biodiversità. Due secoli sono un periodo troppo breve per variazioni del genoma, per cui l’impronta genetica dell’uomo moderno rimane, comunque, quella dei nostri antichi antenati: il nostro metabolismo funziona ancora per favorire il risparmio energetico (“fenotipo risparmiatore”). Tutte le principali patologie degenerative, dal diabete all’ipercolesterolemia, dall’ipertensione alle malattie cardiovascolari, dalle malattie reumatiche ai tumori, dalle malattie dentali alle demenze, ma prima di tutto l’obesità, drammatica “epidemia” della nostra società, trovano le loro radici nel contrasto tra l’alimentazione ricca ed abbondante di oggi rispetto al mangiare poco e “magro” del passato. Una serie di dati legati sia a ritrovamenti archeologici sia ad osservazioni biologiche permettono, comunque, di concludere che l'uomo rimane un animale onnivoro, in quanto è provvisto di caratteristiche tipiche degli erbivori, quali la dentatura posteriore, il secondo tratto dell'apparato digerente, mentre la dentatura anteriore (incisivi e canini) e il primo tratto dell'apparato digerente presentano caratteristiche proprie dei carnivori. Nella vista la preferenza è per i colori più che per il movimento, come negli erbivori. Anche la distribuzione e gli orari dei pasti differiscono notevolmente rispetto a quelli dei carnivori e degli erbivori: l'uomo non è, infatti, un "mangiatore occasionale", come i grandi felini, e neanche un "mangiatore continuo", come ad esempio gli equini o i bovini o gli ovini, ma al contrario consuma regolarmente dei pasti, che, con il passare degli anni, diventano meno numerosi e più distanziati nell'arco della giornata. L’uomo è l’unico essere vivente che mangia abitualmente sia vegetali, sia animali erbivori, sia animali carnivori, e non fa parte di catene alimentari naturali. Non deve meravigliare se, fin dall'antichità, l'uomo si è posto il problema di una corretta ed adeguata alimentazione, in quanto i riflessi del cibo sulle capacità e sulle potenzialità dell'individuo sono stati sempre considerati determinanti, tanto da poter condizionare l’evoluzione della specie umana. Recentemente è stato ipotizzato che anche la corsa abbia svolto un ruolo importante nel processo evolutivo dell’uomo (BRAMBLE DM, LIEBERMAN DE: Endurance running and the evolution of homo. Nature, vol 432, 2004, 345-352). In precedenza era stato sottolineato l’importanza della marcia, che ha permesso agli ominidi divenuti bipedi di compiere giornalmente percorsi molto prolungati fra i cespugli della savana, mantenendo un ottimale angolo di visuale grazie alla stazione eretta. La mancanza di attenzione verso la corsa era influenzata dall’osservazione che l’uomo è un mediocre velocista, in confronto alle prestazioni di altri mammiferi. In particolare gli sprinter d’elite umani sono lenti, capaci di sostenere velocità massime di soli 10,2 ms-1 per meno di 15 secondi, mentre i mammiferi, come cavalli, antilopi, ecc., possono mantenere velocità al galoppo fino a 15-20 ms-1 per vari minuti. Il costo energetico per la corsa, inoltre, è maggiore nell’uomo rispetto ai mammiferi quadrupedi. Nonostante che l’uomo sia un mediocre velocista, le sue capacità di corsa protratta, di lunga durata, a metabolismo aerobio (endurance) sono in realtà notevolmente migliori. La velocità ottimale per il cammino è di circa 1,3 ms-1, in rapporto alla lunghezza degli arti inferiori, ed è osservazione comune che l’aumento di velocità oltre 2,3-2,5 ms-1 spinge istintivamente gli uomini a passare dalla marcia alla corsa. La corsa segue regole completamente differenti rispetto alla marcia, che è legata ad un meccanismo a pendolo degli arti inferiori. D’altronde è ipotizzabile che negli spostamenti i cacciatori-raccoglitori avessero necessità di alternare marcia e corsa in rapporto a variabili necessità sia cacciare sia di non diventare preda. La competizione per il cibo inoltre imponeva di spostarsi rapidamente per avere maggiori opportunità di sostentamento, precedendo i naturali competitori. In realtà, nelle lunghe distanze, la velocità dell’uomo è sorprendentemente comparabile a quella dei mammiferi, come cani e cavalli. Gli sportivi amatoriali sono abitualmente in grado di correre per 10 e più km ogni giorno e i maratoneti riescono a sostenere una corsa di 42,2 km, prestazioni considerate impossibili per i primati e non molto lontane da quelle dei mammiferi galoppatori nel loro habitat naturale. I meccanismi che permettono all’uomo di avere prestazioni di endurance nettamente migliori rispetto ai primati sono molteplici. L’uomo, rispetto ai primati, ha apparati muscolo-tendinei più allungati, come ad esempio il tendine d’Achille; ha un valido arco plantare del piede, che si comporta da struttura elastica che assorbe l’energia d’urto generata dal contatto con il suolo e in parte la restituisce; ha sostanzialmente più larghe superfici articolari assorbenti l’onda d’urto proveniente dal terreno, come lo stesso arco plantare, la testa del femore, il ginocchio, un largo bacino; ha bilanciamento e stabilizzazione nella corsa migliori. L’uomo, infatti, riesce a stabilizzare il tronco e la testa nella corsa mediante i movimenti coordinati delle braccia, il maggiore sviluppo dei muscoli dorsali e glutei e del legamento nucale. Durante la corsa prolungata, inoltre, si sviluppa molto calore endogeno che l’uomo riesce a termodisperdere meglio mediante il sudore, facilitato dalla mancanza del pelo (la “scimmia nuda”). Infine l’uomo è in grado di passare dalla respirazione nasale a quella orofaringea, che permette d’aumentare il volume dell’aria inspirata, di ridurre la resistenza al passaggio della stessa aria e di favorire la termodispersione. Del Dr. Leone Arsenio - specialista in endocrinologia e medicina interna presso l'Ospedale maggiore di Parma, Presidente Regionale Adi Emilia Romagna, Associazione italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica.

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